Reputation. A leggerla così sembra quasi un talent show, e in effetti come immagine, quella della “nomination” che arriva se commetti errori (epici, magari) o semplicemente se non ti muovi bene, risulta anche piuttosto calzante. Ma che cos’è la reputazione online? Quali i punti di contatto con l’identità? Fin dove la legge protegge il diritto di sbagliare e dove deve invece deve garantire a tutti una giusta informazione? Queste e altre domande sono state al centro di un panel ideato da Guido Scorza e Giovanni Maria Riccio di E-Lex, intitolato “Digital Law, reputation online”, nell’ambito della Social Media Week di Roma. Nell’introduzione, Scorza citava un passo de “Il vero nome” di Vernor Vinge (1979): “Il mio kernel è la fuori nel Sistema (l’Altro Piano). Ogni volta che io vado là ci trasferisco qualcos’altro di me. Il kernel sta crescendo per diventare la vera Erytrina, quella che in realtà sono io. Quando questo corpo morirà […], io ci sarò ancora e tu potrai parlare con me”.
Che a ben vedere evoca un panorama che – chi più, chi meno – vive attraverso Facebook (il profilo di una persona mancata che continua a esistere, o Skype e LinkedIn che ce ne ricordano il compleanno, anche quando non c’è più). È in quello scenario una volta futuristico e adesso quotidiano che il limite tra l’identità reale e quella rappresentata si ridefinisce ogni giorno, e palleggia con la reputazione continuamente.
Stefano Epifani, docente di Social Media Management a La Sapienza, mette i puntini sulle “i”: “Il punto di partenza è smettere di considerare il reale in opposizione al virtuale, come fosse ancora Second Life. Non si tratta più dell’impersonificazione di un sé ideale, come succedeva quando la Rete era davvero qualcosa di virtuale. Adesso siamo in un contesto devastante negli impatti quanto bello nei risultati, ma del tutto immersivo. Basti pensare alla traduzione letterale di Facebook”. Analogico e digitale sono interconnessi, molti degli amici che abbiamo online sono i nostri amici di tutti i giorni. “Internet sta ri-mediando il modo in cui gestiamo le nostre relazioni, e viviamo nel costante equilibrio tra il qui e ora, e ora e in Rete”.
E sempre di equilibri si tratta. Sul fronte legale per esempio, quelli tra “diritto all’oblio” – annoso tema sul quale si continua a dibattere dopo la sentenza di maggio della Corte di giustizia di Strasburgo – e il diritto all’informazione di tutti. Quando la reputazione va difesa, e quando è ancora interesse pubblico? Al di là delle posizioni e dei casi che di volta in volta vanno dibattuti, il punto è che per la difesa dei propri dati, la legislazione è viva e vegeta.
Luigi Montuori, avvocato e dirigente del Dipartimento comunicazioni e reti telematiche del Garante della Privacy, ricordaalcuni degli strumenti in possesso della persona che subisce un erroneo trattamento dei dati. In base alla legge 675 del 96, poi rinnovata col d.l. del 2003, “si possono esercitare una serie di diritti sul trattamento dei propri dati. Posso voler sapere di quali dati sei in possesso, quando li aggiorni, fornire un motivo per cui non voglio più che siano trattati, e via di seguito”. Qualora il problema riguardasse una notizia ancora presente in rete, anche in questo caso si è già espressa la Cassazione italiana, che nella sentenza 5525 del 2012, riconosceva il diritto all’aggiornamento della notizia. In sostanza, il protagonista di un articolo può pretendere che venga evidenziata una nota con l’aggiornamento dei successivi sviluppi di una notizia. Quando il problema è la deindicizzazione, grazie alla sentenza europea di cui sopra, il soggetto può fare richiesta direttamente al motore di ricerca, adesso riconosciuto come titolare del trattamento (essendo un motore di ricerca non cancella la notizia della fonte, ma la rimuove dal sistema di indicizzazione).
La presenza di strumenti a difesa del trattamento dei dati personali è confermata dalla mole di richieste che arriva al Garante: “Ne arrivano, ma non siamo sommersi”, ci dice Montuori:“Parliamo di una decina al mese, anche perché l’Autorità italiana aveva già riconosciuto la possibilità di deindicizzare facendorichiesta direttamente alle testate” – se straniere, conviene la richiesta al motore di ricerca.
Questa è la legge. Poi c’è quella non scritta delle buone pratiche online, quella che fa sì che un brand si sappia raccontare, e la stessa che fa in modo di riparare quando vengono commessi degli errori.
Partendo dalle basi, parlare di reputazione online “implica semplicemente aver compreso che rispetto alle dimensioni di comunicazione tradizionale, oramai ci troviamo a posizionare e studiare la comunicazione dell’azienda anche online, quindi a generare un sentimento, una percezione da parte del nostro pubblico”, spiega Francesca Parviero, fondatrice di LinkBeat, Official LinkedIn EMEA Talent Partner. “Oggi spesso, prima di raggiungere fisicamente una persona, veniamo raggiunti attraverso un link, un sito, un canale social, che le consente di farsi una prima idea sull’azienda. A partire anche dalle persone che la rappresentano. I collaboratori che sono i nostri primi brand ambassador”.
Quelle stesse ricerche che le persone fanno prima di contattare un’azienda (o una persona), non hanno peraltro regole fisse. Lo spiega Jacopo Mele, Digital Life Coach: “Non esiste una formula universale per estrarre la reputazione online di un’entità (persona fisica o istituzione), ma quello che dobbiamo capire è quale sarà la checklist della nostra utenza, cosa andranno a cercare quando vorranno trovare delle informazioni su di noi o sulla nostra azienda”.
E per curare l’epic fail, l’unica soluzione è giocare d’anticipo: “È proprio la prevenzione l’unica vera arma a disposizione delle aziende. Ho sempre suggerito di avviare il prima possibile una strategia di produzione di contenuti di qualità che possano aiutare l’azienda a posizionarsi come “reference” nel proprio settore”, spiega Mele. “Aderendo a questo approccio, applicandolo con continuità e cercando di promuovere i contenuti pubblicati, è possibile fronteggiare episodi negativi con strumenti adatti e con volumi di informazioni “qualificanti” adeguati alla crisi. Il posizionamento come “reference” si favorisce, ad esempio, condividendo (gratuitamente) il proprio know-how all’interno della rete, affinchè l’azienda possa essere percepita come un soggetto competente e generoso all’interno del proprio settore”.
Il segreto è nei gesti abitudinari di prevenzione, chiude: “Non sappiamo oggi chi ci cercherà o su cosa cercherà. Ma qualora nel villaggio globale qualcuno mettesse in giro delle informazioni spiacevoli sul nostro conto, sarebbe meglio se i cittadini di questo villaggio avessero già un buon giudizio su di noi. Mantenere dei buoni rapporti, quotidiani, con i nostri utenti, non ci ripara da un grave “disastro”, ma certamente aiuta”.
(Fonte: Wired.it)